CERCASI ASSISTENTI SOCIALI

Sei un/un’ ASSISTENTE SOCIALE iscritt* all’Albo e hai almeno 1 anno di esperienza nei Servizi Sociali per 23 ore settimanali?
Inviaci il tuo CV datato, firmato e con il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 13 del D. Lgs. 196/2003 e dell’art. 13 GDPR 679/16.
Indirizzo: info@portapertaonlus.it
Scrivi nell’Oggetto della mail: Candidatura Assistente Sociale

La ricerca ha CARATTERE D’URGENZA, pertanto saranno presi in considerazione per primi i CV arrivati ENTRO QUESTA SETTIMANA.

Il 5×1000 a Porta Aperta

Da quest’anno, nella dichiarazione dei redditi, è possibile donare il 5×1000 a Porta Aperta – Società Cooperativa Sociale a r.l., inserendo il suo codice fiscale: 01939600902.

Cosa comporta questa donazione per voi e per noi? Vi diamo qualche informazione

COS’È IL 5X1000?

E’ una “misura fiscale” a disposizione di tutti i contribuenti che possono decidere di destinare una quota dell’IRPEF (la percentuale si riferisce al 5×1000 dell’imposta sul reddito delle persone fisiche) a enti che operano in ambito di interesse sociale.

COME POSSO DONARE IL MIO 5X1000?

Quando compili la tua dichiarazione dei redditi (730, Persone Fisiche) Cerca il box con la dicitura “Sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative” e fai la tua scelta.

CHE SUCCEDE SE FIRMO MA NON INDICO IL CODICE FISCALE DELLA COOPERATIVA?

Il tuo 5×1000 sarà suddivisa in modo proporzionale al numero di preferenze ricevute dalle associazioni appartenenti alla stessa categoria.

COSA DEVO FARE PER INDICARE “PORTA APERTA” COME DESTINATARIA DEL 5X1000?

Basta inserire nel box “Sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative” il codice fiscale di PORTA APERTA: 01939600902

IL 5X1000 HA UN COSTO PER ME?

No. Il 5×1000 è una parte dell’IRPEF che già versiamo. Non è, quindi, una spesa aggiuntiva. Qualora non si decidesse a chi destinare il 5×1000 sarà versato allo Stato.

IL 5X1000 È DEDUCIBILE DALLE TASSE?

No. Il 5×1000 non è una donazione e quindi non è deducibile dalle tasse.

SE DONO IL 5X1000, POSSO DONARE ANCHE L’8X1000 E IL 2X1000?

Sì, sono strumenti distinti e non alternativi.

COME UTILIZZA IL 5X1000 PORTA APERTA?

Grazie al tuo 5×1000, Porta Aperta potrà implementare e potenziare i suoi servizi alla persona: gli inserimenti socio-lavorativi per persone in difficoltà o con disabilità, gli interventi di sostegno educativo e psicologico, i servizi sociali, socio-assistenziali e socio educativi, le azioni volte alla tutela delle persone più fragili e delle donne e bambini vittime di violenza.

La principessa scalza

Questa favola inedita della nostra pedagogista Emanuela Bussu è dedicata ad ogni bambina e bambino e ad ogni donna e uomo che vogliano togliersi sassolini dalle scarpe ed imparare a camminare nella vita sentendosi comodi e liberi nel farlo a modo loro.

La principessa scalza
C’era una volta una principessa che, come avete già saputo dal titolo, era scalza. Ma come mai, vi chiederete voi? Le principesse, si sa, di scarpe ne avranno a milioni e non si trattava certo di un problema di abbinamento con i vestiti o di disponibilità. La principessa aveva proprio un problema con le scarpe che, di qualunque numero fossero, le andavano strette. E allora scalza andava in giro per il palazzo che era tanto grande da sembrarle un mondo e in quel mondo lei, che scalza si sentiva così libera, stava bene e non aveva nessuna intenzione di indossare delle scarpe strette pur di poter uscire. Aveva sentito di sfuggita la parola Libertà ma, non conoscendo bene il significato, per lei la massima libertà che si potesse vivere era l’essere scalza, cosa che la faceva sentire così bene da non sentire il bisogno di altro. Un giorno si sveglio prima del solito, al sorgere del sole, e si affacciò ad una delle finestre del castello, quella che dava ad est, e restò colpita dalla luce che vide, che pure al mattino era sempre stata lì, solo che lei non la aveva mai incontrata. Non fu solo la luce che vide a stupirla, ma anche le ombre che dalle cose, dalle piante, da tutto l’esistente venivano proiettate, disegnando forme che sembravano animate e, di ora in ora, cambiavano, si muovevano. Giorno dopo giorno si trovò davanti alla finestra ad osservare quella vita che davanti ai suoi occhi si muoveva, mutava e sembrava invitarla ad andare a vedere da vicino. La curiosità la faceva trepidare, ma come poteva lei, principessa scalza, percorrere tutta quella strada che la separava dalla luce e dalle ombre che si muovevano? La questione era anche diventata centrale nelle sue chiacchierate via WhatsApp con il suo amico Andrea, ma anche lui aveva un problema con le scarpe. Non era quindi il consigliere ideale per spingerla a uscire. La curiosità però, si sa, muove il mondo e una volta destata non si sopisce facilmente, per fortuna, aggiungerei io, perché a stare fermi talvolta si perde qualcosa.
Fu così che la principessa scalza si convinse ad andare fuori e dopo varie prove trovò le scarpe che sentiva meno scomode e uscì. Camminava lenta e di tanto in tanto si fermava, toglieva le scarpe e dava aria ai piedi, poi riprendeva e procedeva verso l’orizzonte, la luce e le ombre che voleva scoprire. Finché un sassolino entrò nella scarpa e le faceva tanto male, ma ogni volta che provava a fermarsi sembrava sparire, per poi ricomparire quando riprendeva a camminare. Che stranezza questo sassolino nella scarpa! Ma lei era così stanca che non aveva più voglia di sedersi, togliere le scarpe, cercare il sassolino, rimetterle, rialzarsi e riprendere a camminare. Finché scoprì di essere capace di stare in equilibrio su un piede solo e di riuscire a togliere velocemente il sassolino dalla scarpa, rimetterla e poi continuare ad andare in giro senza problemi. Che fantastica scoperta, l’equilibrio! In breve tempo la principessa arrivò dove la luce e le ombre giocavano e lei poté perdersi a giocare e scoprire, fino a sera, quando riuscì a percorrere agilmente la strada del rientro perché la gioia data dalla libertà le fece dimenticare il dolore ai piedi. Da allora tante volte uscì per andare a scoprire luci e ombre e le scarpe non furono più il suo limite. C’era una volta una principessa e c’è ancora oggi, ma scalza non possiamo più chiamarla perché è diventata libera di scegliere se esserlo oppure no, a seconda delle sue esigenze. Potremmo chiamarla la principessa libera, ma lei si sente libera anche dalle definizioni.

Emanuela M. Bussu

#soriedimela

Il lavoro dell’assistente sociale al tempo del coronavirus

Essere un’assistente sociale presso i servizi sociali durante l’emergenza Covid-19?

Una domanda che quotidianamente mi pongo. Mi capita continuamente di riflettere sul mio ruolo professionale nella sua ottica tridimensionale, ossia con uno sguardo rivolto all’istituzione/organizzazione, uno all’individuo e al suo ambiente di vita e uno all’intera comunità.

Già la sola domanda è in grado di causare grandi mal di testa. Spesso, infatti, coniugare la visione e il rispetto della persona ad autodeterminarsi con la visione dell’istituzione o il rispetto delle leggi o dell’intera comunità non è certo semplice, come non è facile l’ascolto di azioni lesive dell’integrità di altri. Ma è il nostro ruolo. Ascoltare ed aiutare le persone ad affrontare il loro percorso di presa di consapevolezza e di cambiamento, fa parte del nostro lavoro. Ma per fare tutto questo è fondamentale il contatto umano che ogni giorno ci permette di provare a creare con la persona una relazione fiduciaria, utilizzando il nostro corpo, la nostra gestualità, il tono di voce, il muoverci nello spazio andando loro incontro, sfruttando lo sguardo, rispettando e gestendo i silenzi. Non sempre riusciamo, ma sicuramente facciamo tutto quello che è nelle nostre capacità per aiutare le persone a superare ogni difficoltà possano incontrare nella loro vita.

Come coniugare tutto questo con il nuovo lavorare in emergenza coronavirus e come cambia il nostro lavoro?

Il quotidiano fatto di colloqui, riunioni di équipe, visite domiciliari, relazioni, registrazioni non esiste più. Ora arrivi in ufficio e vedi i colleghi, anche loro con mascherine e guanti, con gli sguardi tristi che tengono rigorosamente le distanze fisiche, impossibile percorrere il corridoio insieme. I cittadini che regolarmente accedono al servizio non possono entrare nella sede e quindi?

Il lavoro cambia ogni momento, ora ci occupiamo di sostenere chi ha avuto gravi disagi a causa del coronavirus. Storie di giornate faticose da affrontare con la paura più grande di non sapere come pagare le bollette, avere da mangiare per i propri figli, di chi fino al giorno prima era un lavoratore regolare e ora è improvvisamente privo di reddito, un imprenditore di colpo senza guadagni, un anziano solo, impossibilitato a ritirare le ricette dal proprio medico e potersi acquistare i farmaci e così via. Ti attivi, reperisci tutte le risorse che hai sempre avuto, i volontari, le associazioni ecc. Insomma non smetti di occuparti dei diritti di ogni individuo, solo che lo fai al telefono, perdendo però la caratteristica fondamentale del nostro lavoro, il contatto diretto con le persone, sapendo che tornerai a guardarle negli occhi non avendo paura di affrontare le difficoltà al loro fianco.

Giovanna Piana, assistente sociale

Storia del puntino Punt-INO

Eccovi un’altra storia inedita della nostra pedagogista Emanuela Bussu.

Questa favola non va solo letta ma anche illustrata, quindi armatevi di colori perché Puntino ci tiene ad essere riconosciuto 😉

Punt-INO

C’era una volta Puntino, un puntino piccolo, piccolo, appunto… Oh, insomma… ci risiamo con i giri di parole! Quindi: C’era una volta Puntino ed eccolo qui, ancora.

[DISEGNO DI UN PICCOLO PUNTO INDICATO CON UNA FRECCIA]

Come dite? Non lo vedete? Ecco appunto il problema: nessuno, proprio come voi ora, lo vedeva. Saltava, ruotava su di sé, parlava e parlava, tratteneva il respiro per gonfiarsi un po’, ne combinava di tutti i colori, ma niente. Anche i suoi capelli erano stati di tutti i colori: rosa, oro, moro, nero d’inferno, rosso moderno, ma quest’inferno dell’invisibilità non gli consentiva la libertà.

[DISEGNO DI PUNTINO CON I CAPELLI ROSA, ORO, MORO… ETC.]

– Come dite, ancora? Ora lo vedete e pensate che abbia funzionato? No, no, questi disegni sono sicuramente ingranditi – Insomma, Puntino se la cavava da sé, si bastava, e diceva: “Ormai sono diventato grande!”, aggiungendo che quel -INO in fondo al suo nome non era poi più un problema e, anche se l’invisibilità l’aveva combattuta a forza di urla e stravaganze ma non era servito, ora si sentiva appagato e sicuro perché aveva trovato una soluzione: ingrandirsi! Mangia oggi, mangia domani – che grande soddisfazione era poi quel mangia-mangia! – il suo progetto si era realizzato, tanto che era divenuto grande, anche un po’ ingombrante, ma, a ben ascoltare, quel fastidio dentro c’era sempre, non se ne era mica andato
mandando giù ogni boccone, più o meno buono, più o meno salato. Puntino, quindi, -INO lo era ancora, non si era salvato.

[DISEGNO DEL PUNTINO CON LE GUANCE TONDE E BRACCIA E GAMBE SOTTILI]

– Sì, mi sa che avete ragione voi, ora si vede, il disegno non è ingrandito, si era proprio ingigantito lui – Puntino non era più -INO fuori: era cresciuto esternamente per non crescere dentro. E adesso chi glielo dice che per ben stare davvero, tutto si deve abbinare, che dentro e fuori si devono sintonizzare? Nessuno può farlo e così Puntino se lo dice da sé, percorrendo la strada che trova, i passi che approva, trovando la sua forma e scoprendo via via l’amore per sé. Ha così la prova che è divino quello che c’è.

C’era una volta Puntino e c’è ancora oggi diverso, ma sempre Punt-INO, perché il nome non si sceglie, ma chi si è si costruisce.

[DISEGNO DI PUNTINO CON GLI OCCHI SORRIDENTI]

#storiedimela

Emanuela Michela Bussu, pedagogista.

Confcooperative: aziende attive in tempo di Covid-19

Confcooperative Sassari Olbia ha aperto una pagina web destinata alle aziende che in questo periodo restano attive e offrono i loro servizi a domicilio oppure svolgono attività ritenute dallo Stato “necessarie al momento storico che stiamo attraversando”.
Fra queste ci siamo anche noi con le nostre attività ricomprese in due macro-aree:

? SERVIZI ALLA PERSONA

– Servizi di Assistenza Domiciliare, RAC, HCP, L.162/98
– Servizi socio-educativi e di sostegno psicologico
– Comunità educativa residenziale per minori “La Casa sull’Albero”
– Progetto Aurora: il servizio antiviolenza che gestiamo per il Plus di Sassari
– Centro clinico Epochè www.centroclinicoepoche.org
– inserimenti socio-lavorativi con supporto educativo e psicologico

? SERVIZI ALLE AZIENDE

– Progettazione sociale: scrittura di progetti per bandi, avvisi pubblici e gare d’appalto;
– Definizione del budget di progetto: analisi dei costi del progetto con formulazione del budget finale;
– Rendicontazione amministrativa di progetti realizzati per enti pubblici, fondazioni e organizzazioni private quali, ad es., Comuni, Regione Sardegna, Ministeri, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Fondazione di Sardegna, Fondazione con il Sud etc.;
– Supporto nell’utilizzo delle piattaforme di gara: caricamento ed invio della documentazione su piattaforme (ad es. Chairos e SardegnaCat), sia in fase di partecipazione alla gara che di eventuale soccorso istruttorio.

Sono, inoltre, attualmente attivi i seguenti servizi:
– Servizio Sociale Professionale e Centro Educativo Diurno gestiti per il Comune di Sorso
– Segretariato Sociale del Comune di Sennori
– Sportello di supporto psicologico del Comune di Padria
– Inserimenti socio-lavorativi di minori e giovani adulti in carico al Centro di Giustizia Minorile che svolgiamo presso il Comune di Tissi

Contattateci qua:
? 342 016 9098
? amministrazione@portapertaonlus.it; portaperta@pec.it

Favola inedita: La Paura bullizzata

Scritta dalla nostra pedagogista Emanuela Bussu, questa favola parla di emozioni. Soprattutto di un’emozione che oggi conosciamo molto bene ma da cui pensiamo di dover scappare: la paura. Eppure riconoscerla e darle l’importanza che merita ce la renderà amica, perché tutte le emozioni sono importanti 🙂

La Paura bullizzata

C’era una volta la Famiglia Emozioni: Sorpresa e Disgusto (madre e padre), Gioia, Ira, Tristezza e, infine, Paura. Perché infine? Perché Paura, tra le sue sorelle, si sentiva proprio l’ultima, ma soprattutto non si sentiva libera di esprimersi e di essere se stessa. Non andava certo meglio fuori di casa, così poco abituata com’era a farlo in famiglia. Derisa, sbeffeggiata, non ascoltata, ignorata, additata: era così che si sentiva, era così che ogni giorno veniva trattata. Così, bullizzata da tutti e, ormai, sempre più debole e sopraffatta, se ne andava in giro insieme alle altre, cercando di imitare ora il comportamento di Gioia, ora quello di Tristezza, ora quello di Ira, ma sempre attenta a non dare troppo nell’occhio per non essere scoperta. Paura proprio non piaceva a nessuno e lei aveva imparato a nascondersi. Testa bassa, cuffie nelle orecchie, distratta e sempre più cieca verso gli stimoli che arrivavano dal mondo perché, ne era ormai sicura, essere se stessa e mettersi in allarme l’avrebbe solo scombussolata tutta ed esposta alla derisione. La più fortunata delle sue sorelle era certamente Gioia, ben vista e approvata, seppur talvolta attaccata dalla cugina Invidia, che avrebbe desiderato essere anche lei sempre accolta con entusiasmo. Forse, ormai, chi fosse davvero Paura non lo sapeva più, ma, pur di non essere più derisa per le sue allerte davanti ai pericoli, le andava bene così.
Un giorno, da un paese lontano, ricevette la chiamata dalla sua amica Peur(1) che quasi non la riconobbe e la mise in guardia: “Se arrivasse un grosso guaio, senza di te si fa uno sbaglio. Sii prudente e attiva i sensi che a sentire niente perdi”. Ma Paura, che sentire proprio non voleva più, rise di gusto e riattaccò.
Il giorno dopo, anche Medo, dal Portogallo, la chiamò e condivise con le altre amiche l’allarme, perché anche stavolta Paura non ascoltò. E giorno dopo giorno la preoccupazione per Paura circolò: Alkhwf, Fear, Kong Jù, Frygt, Timo… tutte le sue amiche in allerta la chiamavano e, il fatto che lei fosse sorda e cieca ai loro solleciti, le impauriva tanto più. Ormai le dicevano: “Chi sei tu?”. E pensavano: “Niente è più pericoloso di un comportamento imprudente, soprattutto se lo si fa per mostrare agli altri di essere chi non si è. Il limite, qual è?”. Possibile che Paura continuasse a negare se stessa, solo perché l’avevano convinta che non era giusta esattamente così com’era?
Erano tutte d’accordo per intervenire e si unirono per aiutare la loro amica a ritrovare il suo vero sé. Lavorarono insieme e in breve fu pronto un video-racconto di quella volta che: “Se non c’eri te…”, ovvero di tutte le volte che la paura – lei e loro insomma – erano state importanti, perché la Paura in ogni parte del mondo, è emozione fondamentale per riconoscere ed evitare un pericolo.
Quando Paura lo vide, un turbinio di emozioni si scatenò in lei: le sentì tutte profondamente e capì così che tutte sono positive al momento giusto, basta soltanto ascoltare e non scherzare se si vorrebbe scappare. Si sentì “giusta” e, nell’essere riconosciuta, si riconobbe! Decise così di non perdere più energie per essere come Tristezza, Ira o Gioia, che tanto non le venivano bene. Non ebbe più paura di essere se stessa e riuscì a dire a tutti chi era, a partire dalla sua famiglia.

C’era una volta e c’è ancora la Famiglia Emozioni, dove ora ognuna rispetta le sue funzioni, va in giro fiera, senza confusioni e non ci sono più derisioni.

#storiedimela

Emanuela Michela Bussu, pedagogista.

(1) I nomi delle amiche di Paura sono la traduzione della parola “paura/avere paura” rispettivamente in francese, portoghese, arabo, inglese, cinese, danese e sardo.

Pensare l’esperienza

Nel corso della mia continua formazione mi sono imbattuta in un libro molto interessante “Apprendere dall’esperienza” scritto da Luigina Mortari.
Nel testo, principalmente dedicato alla figura dell’educatore, si affronta però una tematica che può riguardare chiunque: la necessità di pensare riflessivamente a ciò che facciamo e quindi “pensare le azioni”.
Non vi è dubbio che per svolgere qualsiasi tipo di professione sia necessario avere delle conoscenze e competenze specifiche e quindi conoscere la materia e saper padroneggiare le varie teorie acquisite durante gli anni di formazione.
Nel caso dell’educatore, oltre ovviamente ad avere una conoscenza nel campo delle scienze della formazione e non solo, è necessario “maturare la capacità di leggere criticamente la specificità del contesto in cui si agisce per valutare quali risorse e limiti presenta rispetto al fine cui mirare” (1).
Ogni educatore opera in un contesto specifico con casi unici e particolari ai quali è difficile applicare rigidamente teorie e protocolli appresi.
Questo non significa che avere delle solide basi non sia necessario, esistono infatti delle teorie psicologiche, pedagogiche, sociali che ogni operatore ben formato deve assolutamente conoscere per operare nel migliore dei modi.
Nella mia esperienza personale come operatrice all’interno della Comunità Educativa “La Casa sull’Albero”, ho sempre ritenuto importante affidarmi a teorie classiche quali la “Teoria dell’attaccamento” di John Bowlby utile per comprendere lo stile di attaccamento del bambino e poter successivamente pianificare degli interventi mirati all’interno del Progetto Educativo Individualizzato.
Così come fondamentale è la conoscenza delle teorie comportamentiste, base per i diversificati protocolli utilizzabili con bambini e ragazzi con problemi comportamentali vari.
Ogni operatore ha poi un’esperienza formativa specifica e ha approfondito alcune tematiche piuttosto che altre ma credo che tutti possano concordare nel dire che oltre a quanto citato sopra, quindi il sapere tecnico, sia necessario, per svolgere la professione educativa, un sapere prassico, che ha a che fare con la saggezza educativa.
La saggezza educativa, come definita dalla Mortari, è la disposizione a cercare l’azione che meglio consente di conseguire ciò che è ritenuto cosa buona rispetto all’obiettivo di favorire la miglior formazione possibile.
L’educatore è un pratico, egli agisce l’azione educativa ma tale agire deve essere affiancato non solo da teorie note ma anche da teorie elaborate dalla pratica stessa e quindi da “prassi”.
Le buone prassi derivano quindi dall’esperienza intesa come vissuto che diventa oggetto di attenta riflessione. Questo significa che il vissuto non deve solo accadere e “scivolare” ma deve essere “messo in parola” e gli va attribuito un significato.
L’esperienza quindi prevede l’intervento di un pensare riflessivo, di un atteggiamento di ascolto nei confronti dell’esterno ma anche di se stessi, questo permette di trasformare l’esperienza in competenza.
Secondo Hanna Arendt, l’educazione non è improvvisazione ne tecnicismo ne spontaneismo ma l’educatore è un professionista riflessivo che progetta ma non programma.
La base della riflessione della Mortari può essere ritrovata nel pensiero Socratico e quindi nella massima “So di non sapere”, pertanto continuamente mi interrogo, metto in dubbio ciò che conosco, sostengo l’incertezza.
La teoria elaborata da Schon, sulla pratica riflessiva, individua due livelli di riflessione:
Il pensare a ciò che si fa e il pensare i pensieri.
Il pensare a ciò che si fa può avvenire in action quindi nel corso dell’azione, oppure on action, successivamente all’azione.
Pensare in azione significa attivare quell’attenzione vigile che permette di cogliere immediatamente situazioni incerte e problematiche, fermarsi e pensare, quindi sospendere l’azione e interrogarsi, pertanto rimanere anche nell’incertezza e saperla sostenere per poi agire e salvare l’azione.
Pensare sull’azione significa invece pensare in profondità e capire che cosa ha spinto verso quella determinata direzione l’agire.
Il pensare i pensieri può essere definita una meta-riflessione, cioè la capacità di pensare a come abbiamo sviluppato la nostra teoria.
Uno strumento utile allo scopo di favorire processi riflessivi per se stessi ma anche per gli altri operatori, ed utilizzato nella nostra pratica presso la Comunità Educativa in cui opero è il Diario di Bordo.
Il Diario di Bordo è un software che permette di annotare quotidianamente quanto accade all’interno della struttura e non solo con l’obiettivo di aggiornare i colleghi del turno successivo ma anche di indirizzare verso riflessioni quotidiane del proprio agire educativo.
Oltre al Diario di Bordo, la riunione di équipe settimanale e la supervisione con lo psicologo effettuata una volta al mese, sono per noi educatori, spazi di condivisione che sostengono la pratica dell’agire riflessivo.
Oggi più che mai in questo momento storico di grande incertezza, svolgere il lavoro educativo è sempre più difficile in particolare perché non esistono protocolli e teorie alle quali attenersi per sostenere i minori durante una pandemia globale. In questo momento, il pensare riflessivo diviene utile per sviluppare delle nuove e buone prassi che entreranno a far parte dell’agire educativo.
Possiamo affermare di trovarci in una condizione nuova, mai sperimentata e pertanto come educatori di Comunità leggiamo il contesto e le criticità del momento e cerchiamo di realizzare gli obiettivi tenendo in considerazione limiti e risorse, proprio come suggerito dalla Mortari.
Il nostro agire oggi, se pensato e riflettuto acquisirà significato, potrà essere utile per le teorie di domani e soprattutto sarà un agire consapevole.


Silvia Piredda, Psicologa ed Educatrice

(1) Apprendere dall’esperienza, Luigina Mortari, Carocci Editore (2003)

Il barattolo della calma nel mio stare dentro e fuori la Comunità, come persona e come educatrice

Questi sono giorni difficili, lunghi e dilatati. La dimensione del tempo sembra essere profondamente cambiata ma, in realtà, ciò che è cambiato è la percezione che noi abbiamo di essa .

Sino a poche settimane fa in Comunità il tempo sembrava non bastarci, era scandito da un fitto elenco di impegni che occupavano la vita di grandi e piccini.

E così si correva una velocità disumana dove il traguardo è sempre stato più importante del percorso.

Ma ad un certo punto arriva uno STOP che porta il nome di Sars-cov 2. Ecco che allora, smarriti e spaesati, ci fermiamo e ciò che emerge in maniera prepotente è l’angoscia, la paura per l’oggi e per il futuro. Emozioni con le quali il confronto è sempre complesso.

Ed è così che nelle mie intime riflessioni ho pensato al “barattolo della calma”, ispirato alla pedagogia montessoriana a cui più volte ho fatto riferimento nella mia pratica educativa.

Un barattolo speciale che contiene al suo interno del liquido blu e dei brillantini. Il suo compito è quello di intervenire dopo un momento di forte stress, di rabbia o di frustrazione riportando il bambino/individuo ad una condizione di equilibrio e autocontrollo ed offrendogli  la possibilità di poterlo fare da sé.

Ho dunque immaginato il “barattolo della calma” come un dispositivo di protezione per la psiche che tutti, grandi e piccoli, possiamo utilizzare subito dopo una tempesta emotiva per poter  aprire uno spazio di riflessione e, finalmente, osservare il percorso e non soltanto il traguardo.

Essere educatore, oggi, in una comunità per minori è sentire il peso della responsabilità maggiore. Un peso con il quale ti misuri tutti i giorni, all’interno del turno di lavoro ma specialmente all’esterno, nella tua intimità e individualità. E così, in quello spazio di riflessione che ritrovi dopo aver agitato il famoso barattolo, ti soffermi a pensare se il tuo agire è sufficiente per poter accogliere, osservare, ascoltare i bisogni dell’altro in un momento dove si fa fatica ad ascoltare i propri.

Sono gli occhi che incontro nel mio lavoro che mi danno la forza di andar avanti. Gli occhi di quei bambini e di quegli adolescenti ai quali ancora una volta è cambiata la vita e nuovamente viene richiamata in campo la loro capacità di resistere e adattarsi alla sfida che ci si è presentata, perché loro più di tutti sanno cosa vuol dire ristrutturare la propria esistenza.

E se l’adattamento alla mancanza della scuola, delle attività sportive , delle passeggiate al mare  può essere molto complicato ma possibile, l’assenza e la distanza dai tanto attesi incontri coi familiari diventa estremamente difficile da tollerare e, al contempo, diventa ancora più difficile “credere che ci sei, comunque sei, sei qui per me”.

E allora quel metro di distanza pesa come un macigno, perché vedi quegli occhi, agiti il barattolo e trasgredisci nel tempo di un abbraccio dove il tempo si ferma e credi e vuoi far credere che  “TUTTO ANDRÀ BENE”.

Annalucia Olmeo

Educatrice de La Casa sull’Albero

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