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Il lavoro dell’assistente sociale al tempo del coronavirus

Essere un’assistente sociale presso i servizi sociali durante l’emergenza Covid-19?

Una domanda che quotidianamente mi pongo. Mi capita continuamente di riflettere sul mio ruolo professionale nella sua ottica tridimensionale, ossia con uno sguardo rivolto all’istituzione/organizzazione, uno all’individuo e al suo ambiente di vita e uno all’intera comunità.

Già la sola domanda è in grado di causare grandi mal di testa. Spesso, infatti, coniugare la visione e il rispetto della persona ad autodeterminarsi con la visione dell’istituzione o il rispetto delle leggi o dell’intera comunità non è certo semplice, come non è facile l’ascolto di azioni lesive dell’integrità di altri. Ma è il nostro ruolo. Ascoltare ed aiutare le persone ad affrontare il loro percorso di presa di consapevolezza e di cambiamento, fa parte del nostro lavoro. Ma per fare tutto questo è fondamentale il contatto umano che ogni giorno ci permette di provare a creare con la persona una relazione fiduciaria, utilizzando il nostro corpo, la nostra gestualità, il tono di voce, il muoverci nello spazio andando loro incontro, sfruttando lo sguardo, rispettando e gestendo i silenzi. Non sempre riusciamo, ma sicuramente facciamo tutto quello che è nelle nostre capacità per aiutare le persone a superare ogni difficoltà possano incontrare nella loro vita.

Come coniugare tutto questo con il nuovo lavorare in emergenza coronavirus e come cambia il nostro lavoro?

Il quotidiano fatto di colloqui, riunioni di équipe, visite domiciliari, relazioni, registrazioni non esiste più. Ora arrivi in ufficio e vedi i colleghi, anche loro con mascherine e guanti, con gli sguardi tristi che tengono rigorosamente le distanze fisiche, impossibile percorrere il corridoio insieme. I cittadini che regolarmente accedono al servizio non possono entrare nella sede e quindi?

Il lavoro cambia ogni momento, ora ci occupiamo di sostenere chi ha avuto gravi disagi a causa del coronavirus. Storie di giornate faticose da affrontare con la paura più grande di non sapere come pagare le bollette, avere da mangiare per i propri figli, di chi fino al giorno prima era un lavoratore regolare e ora è improvvisamente privo di reddito, un imprenditore di colpo senza guadagni, un anziano solo, impossibilitato a ritirare le ricette dal proprio medico e potersi acquistare i farmaci e così via. Ti attivi, reperisci tutte le risorse che hai sempre avuto, i volontari, le associazioni ecc. Insomma non smetti di occuparti dei diritti di ogni individuo, solo che lo fai al telefono, perdendo però la caratteristica fondamentale del nostro lavoro, il contatto diretto con le persone, sapendo che tornerai a guardarle negli occhi non avendo paura di affrontare le difficoltà al loro fianco.

Giovanna Piana, assistente sociale

Storia del puntino Punt-INO

Eccovi un’altra storia inedita della nostra pedagogista Emanuela Bussu.

Questa favola non va solo letta ma anche illustrata, quindi armatevi di colori perché Puntino ci tiene ad essere riconosciuto 😉

Punt-INO

C’era una volta Puntino, un puntino piccolo, piccolo, appunto… Oh, insomma… ci risiamo con i giri di parole! Quindi: C’era una volta Puntino ed eccolo qui, ancora.

[DISEGNO DI UN PICCOLO PUNTO INDICATO CON UNA FRECCIA]

Come dite? Non lo vedete? Ecco appunto il problema: nessuno, proprio come voi ora, lo vedeva. Saltava, ruotava su di sé, parlava e parlava, tratteneva il respiro per gonfiarsi un po’, ne combinava di tutti i colori, ma niente. Anche i suoi capelli erano stati di tutti i colori: rosa, oro, moro, nero d’inferno, rosso moderno, ma quest’inferno dell’invisibilità non gli consentiva la libertà.

[DISEGNO DI PUNTINO CON I CAPELLI ROSA, ORO, MORO… ETC.]

– Come dite, ancora? Ora lo vedete e pensate che abbia funzionato? No, no, questi disegni sono sicuramente ingranditi – Insomma, Puntino se la cavava da sé, si bastava, e diceva: “Ormai sono diventato grande!”, aggiungendo che quel -INO in fondo al suo nome non era poi più un problema e, anche se l’invisibilità l’aveva combattuta a forza di urla e stravaganze ma non era servito, ora si sentiva appagato e sicuro perché aveva trovato una soluzione: ingrandirsi! Mangia oggi, mangia domani – che grande soddisfazione era poi quel mangia-mangia! – il suo progetto si era realizzato, tanto che era divenuto grande, anche un po’ ingombrante, ma, a ben ascoltare, quel fastidio dentro c’era sempre, non se ne era mica andato
mandando giù ogni boccone, più o meno buono, più o meno salato. Puntino, quindi, -INO lo era ancora, non si era salvato.

[DISEGNO DEL PUNTINO CON LE GUANCE TONDE E BRACCIA E GAMBE SOTTILI]

– Sì, mi sa che avete ragione voi, ora si vede, il disegno non è ingrandito, si era proprio ingigantito lui – Puntino non era più -INO fuori: era cresciuto esternamente per non crescere dentro. E adesso chi glielo dice che per ben stare davvero, tutto si deve abbinare, che dentro e fuori si devono sintonizzare? Nessuno può farlo e così Puntino se lo dice da sé, percorrendo la strada che trova, i passi che approva, trovando la sua forma e scoprendo via via l’amore per sé. Ha così la prova che è divino quello che c’è.

C’era una volta Puntino e c’è ancora oggi diverso, ma sempre Punt-INO, perché il nome non si sceglie, ma chi si è si costruisce.

[DISEGNO DI PUNTINO CON GLI OCCHI SORRIDENTI]

#storiedimela

Emanuela Michela Bussu, pedagogista.

Confcooperative: aziende attive in tempo di Covid-19

Confcooperative Sassari Olbia ha aperto una pagina web destinata alle aziende che in questo periodo restano attive e offrono i loro servizi a domicilio oppure svolgono attività ritenute dallo Stato “necessarie al momento storico che stiamo attraversando”.
Fra queste ci siamo anche noi con le nostre attività ricomprese in due macro-aree:

? SERVIZI ALLA PERSONA

– Servizi di Assistenza Domiciliare, RAC, HCP, L.162/98
– Servizi socio-educativi e di sostegno psicologico
– Comunità educativa residenziale per minori “La Casa sull’Albero”
– Progetto Aurora: il servizio antiviolenza che gestiamo per il Plus di Sassari
– Centro clinico Epochè www.centroclinicoepoche.org
– inserimenti socio-lavorativi con supporto educativo e psicologico

? SERVIZI ALLE AZIENDE

– Progettazione sociale: scrittura di progetti per bandi, avvisi pubblici e gare d’appalto;
– Definizione del budget di progetto: analisi dei costi del progetto con formulazione del budget finale;
– Rendicontazione amministrativa di progetti realizzati per enti pubblici, fondazioni e organizzazioni private quali, ad es., Comuni, Regione Sardegna, Ministeri, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Fondazione di Sardegna, Fondazione con il Sud etc.;
– Supporto nell’utilizzo delle piattaforme di gara: caricamento ed invio della documentazione su piattaforme (ad es. Chairos e SardegnaCat), sia in fase di partecipazione alla gara che di eventuale soccorso istruttorio.

Sono, inoltre, attualmente attivi i seguenti servizi:
– Servizio Sociale Professionale e Centro Educativo Diurno gestiti per il Comune di Sorso
– Segretariato Sociale del Comune di Sennori
– Sportello di supporto psicologico del Comune di Padria
– Inserimenti socio-lavorativi di minori e giovani adulti in carico al Centro di Giustizia Minorile che svolgiamo presso il Comune di Tissi

Contattateci qua:
? 342 016 9098
? amministrazione@portapertaonlus.it; portaperta@pec.it

Favola inedita: La Paura bullizzata

Scritta dalla nostra pedagogista Emanuela Bussu, questa favola parla di emozioni. Soprattutto di un’emozione che oggi conosciamo molto bene ma da cui pensiamo di dover scappare: la paura. Eppure riconoscerla e darle l’importanza che merita ce la renderà amica, perché tutte le emozioni sono importanti 🙂

La Paura bullizzata

C’era una volta la Famiglia Emozioni: Sorpresa e Disgusto (madre e padre), Gioia, Ira, Tristezza e, infine, Paura. Perché infine? Perché Paura, tra le sue sorelle, si sentiva proprio l’ultima, ma soprattutto non si sentiva libera di esprimersi e di essere se stessa. Non andava certo meglio fuori di casa, così poco abituata com’era a farlo in famiglia. Derisa, sbeffeggiata, non ascoltata, ignorata, additata: era così che si sentiva, era così che ogni giorno veniva trattata. Così, bullizzata da tutti e, ormai, sempre più debole e sopraffatta, se ne andava in giro insieme alle altre, cercando di imitare ora il comportamento di Gioia, ora quello di Tristezza, ora quello di Ira, ma sempre attenta a non dare troppo nell’occhio per non essere scoperta. Paura proprio non piaceva a nessuno e lei aveva imparato a nascondersi. Testa bassa, cuffie nelle orecchie, distratta e sempre più cieca verso gli stimoli che arrivavano dal mondo perché, ne era ormai sicura, essere se stessa e mettersi in allarme l’avrebbe solo scombussolata tutta ed esposta alla derisione. La più fortunata delle sue sorelle era certamente Gioia, ben vista e approvata, seppur talvolta attaccata dalla cugina Invidia, che avrebbe desiderato essere anche lei sempre accolta con entusiasmo. Forse, ormai, chi fosse davvero Paura non lo sapeva più, ma, pur di non essere più derisa per le sue allerte davanti ai pericoli, le andava bene così.
Un giorno, da un paese lontano, ricevette la chiamata dalla sua amica Peur(1) che quasi non la riconobbe e la mise in guardia: “Se arrivasse un grosso guaio, senza di te si fa uno sbaglio. Sii prudente e attiva i sensi che a sentire niente perdi”. Ma Paura, che sentire proprio non voleva più, rise di gusto e riattaccò.
Il giorno dopo, anche Medo, dal Portogallo, la chiamò e condivise con le altre amiche l’allarme, perché anche stavolta Paura non ascoltò. E giorno dopo giorno la preoccupazione per Paura circolò: Alkhwf, Fear, Kong Jù, Frygt, Timo… tutte le sue amiche in allerta la chiamavano e, il fatto che lei fosse sorda e cieca ai loro solleciti, le impauriva tanto più. Ormai le dicevano: “Chi sei tu?”. E pensavano: “Niente è più pericoloso di un comportamento imprudente, soprattutto se lo si fa per mostrare agli altri di essere chi non si è. Il limite, qual è?”. Possibile che Paura continuasse a negare se stessa, solo perché l’avevano convinta che non era giusta esattamente così com’era?
Erano tutte d’accordo per intervenire e si unirono per aiutare la loro amica a ritrovare il suo vero sé. Lavorarono insieme e in breve fu pronto un video-racconto di quella volta che: “Se non c’eri te…”, ovvero di tutte le volte che la paura – lei e loro insomma – erano state importanti, perché la Paura in ogni parte del mondo, è emozione fondamentale per riconoscere ed evitare un pericolo.
Quando Paura lo vide, un turbinio di emozioni si scatenò in lei: le sentì tutte profondamente e capì così che tutte sono positive al momento giusto, basta soltanto ascoltare e non scherzare se si vorrebbe scappare. Si sentì “giusta” e, nell’essere riconosciuta, si riconobbe! Decise così di non perdere più energie per essere come Tristezza, Ira o Gioia, che tanto non le venivano bene. Non ebbe più paura di essere se stessa e riuscì a dire a tutti chi era, a partire dalla sua famiglia.

C’era una volta e c’è ancora la Famiglia Emozioni, dove ora ognuna rispetta le sue funzioni, va in giro fiera, senza confusioni e non ci sono più derisioni.

#storiedimela

Emanuela Michela Bussu, pedagogista.

(1) I nomi delle amiche di Paura sono la traduzione della parola “paura/avere paura” rispettivamente in francese, portoghese, arabo, inglese, cinese, danese e sardo.

Pensare l’esperienza

Nel corso della mia continua formazione mi sono imbattuta in un libro molto interessante “Apprendere dall’esperienza” scritto da Luigina Mortari.
Nel testo, principalmente dedicato alla figura dell’educatore, si affronta però una tematica che può riguardare chiunque: la necessità di pensare riflessivamente a ciò che facciamo e quindi “pensare le azioni”.
Non vi è dubbio che per svolgere qualsiasi tipo di professione sia necessario avere delle conoscenze e competenze specifiche e quindi conoscere la materia e saper padroneggiare le varie teorie acquisite durante gli anni di formazione.
Nel caso dell’educatore, oltre ovviamente ad avere una conoscenza nel campo delle scienze della formazione e non solo, è necessario “maturare la capacità di leggere criticamente la specificità del contesto in cui si agisce per valutare quali risorse e limiti presenta rispetto al fine cui mirare” (1).
Ogni educatore opera in un contesto specifico con casi unici e particolari ai quali è difficile applicare rigidamente teorie e protocolli appresi.
Questo non significa che avere delle solide basi non sia necessario, esistono infatti delle teorie psicologiche, pedagogiche, sociali che ogni operatore ben formato deve assolutamente conoscere per operare nel migliore dei modi.
Nella mia esperienza personale come operatrice all’interno della Comunità Educativa “La Casa sull’Albero”, ho sempre ritenuto importante affidarmi a teorie classiche quali la “Teoria dell’attaccamento” di John Bowlby utile per comprendere lo stile di attaccamento del bambino e poter successivamente pianificare degli interventi mirati all’interno del Progetto Educativo Individualizzato.
Così come fondamentale è la conoscenza delle teorie comportamentiste, base per i diversificati protocolli utilizzabili con bambini e ragazzi con problemi comportamentali vari.
Ogni operatore ha poi un’esperienza formativa specifica e ha approfondito alcune tematiche piuttosto che altre ma credo che tutti possano concordare nel dire che oltre a quanto citato sopra, quindi il sapere tecnico, sia necessario, per svolgere la professione educativa, un sapere prassico, che ha a che fare con la saggezza educativa.
La saggezza educativa, come definita dalla Mortari, è la disposizione a cercare l’azione che meglio consente di conseguire ciò che è ritenuto cosa buona rispetto all’obiettivo di favorire la miglior formazione possibile.
L’educatore è un pratico, egli agisce l’azione educativa ma tale agire deve essere affiancato non solo da teorie note ma anche da teorie elaborate dalla pratica stessa e quindi da “prassi”.
Le buone prassi derivano quindi dall’esperienza intesa come vissuto che diventa oggetto di attenta riflessione. Questo significa che il vissuto non deve solo accadere e “scivolare” ma deve essere “messo in parola” e gli va attribuito un significato.
L’esperienza quindi prevede l’intervento di un pensare riflessivo, di un atteggiamento di ascolto nei confronti dell’esterno ma anche di se stessi, questo permette di trasformare l’esperienza in competenza.
Secondo Hanna Arendt, l’educazione non è improvvisazione ne tecnicismo ne spontaneismo ma l’educatore è un professionista riflessivo che progetta ma non programma.
La base della riflessione della Mortari può essere ritrovata nel pensiero Socratico e quindi nella massima “So di non sapere”, pertanto continuamente mi interrogo, metto in dubbio ciò che conosco, sostengo l’incertezza.
La teoria elaborata da Schon, sulla pratica riflessiva, individua due livelli di riflessione:
Il pensare a ciò che si fa e il pensare i pensieri.
Il pensare a ciò che si fa può avvenire in action quindi nel corso dell’azione, oppure on action, successivamente all’azione.
Pensare in azione significa attivare quell’attenzione vigile che permette di cogliere immediatamente situazioni incerte e problematiche, fermarsi e pensare, quindi sospendere l’azione e interrogarsi, pertanto rimanere anche nell’incertezza e saperla sostenere per poi agire e salvare l’azione.
Pensare sull’azione significa invece pensare in profondità e capire che cosa ha spinto verso quella determinata direzione l’agire.
Il pensare i pensieri può essere definita una meta-riflessione, cioè la capacità di pensare a come abbiamo sviluppato la nostra teoria.
Uno strumento utile allo scopo di favorire processi riflessivi per se stessi ma anche per gli altri operatori, ed utilizzato nella nostra pratica presso la Comunità Educativa in cui opero è il Diario di Bordo.
Il Diario di Bordo è un software che permette di annotare quotidianamente quanto accade all’interno della struttura e non solo con l’obiettivo di aggiornare i colleghi del turno successivo ma anche di indirizzare verso riflessioni quotidiane del proprio agire educativo.
Oltre al Diario di Bordo, la riunione di équipe settimanale e la supervisione con lo psicologo effettuata una volta al mese, sono per noi educatori, spazi di condivisione che sostengono la pratica dell’agire riflessivo.
Oggi più che mai in questo momento storico di grande incertezza, svolgere il lavoro educativo è sempre più difficile in particolare perché non esistono protocolli e teorie alle quali attenersi per sostenere i minori durante una pandemia globale. In questo momento, il pensare riflessivo diviene utile per sviluppare delle nuove e buone prassi che entreranno a far parte dell’agire educativo.
Possiamo affermare di trovarci in una condizione nuova, mai sperimentata e pertanto come educatori di Comunità leggiamo il contesto e le criticità del momento e cerchiamo di realizzare gli obiettivi tenendo in considerazione limiti e risorse, proprio come suggerito dalla Mortari.
Il nostro agire oggi, se pensato e riflettuto acquisirà significato, potrà essere utile per le teorie di domani e soprattutto sarà un agire consapevole.


Silvia Piredda, Psicologa ed Educatrice

(1) Apprendere dall’esperienza, Luigina Mortari, Carocci Editore (2003)

Il barattolo della calma nel mio stare dentro e fuori la Comunità, come persona e come educatrice

Questi sono giorni difficili, lunghi e dilatati. La dimensione del tempo sembra essere profondamente cambiata ma, in realtà, ciò che è cambiato è la percezione che noi abbiamo di essa .

Sino a poche settimane fa in Comunità il tempo sembrava non bastarci, era scandito da un fitto elenco di impegni che occupavano la vita di grandi e piccini.

E così si correva una velocità disumana dove il traguardo è sempre stato più importante del percorso.

Ma ad un certo punto arriva uno STOP che porta il nome di Sars-cov 2. Ecco che allora, smarriti e spaesati, ci fermiamo e ciò che emerge in maniera prepotente è l’angoscia, la paura per l’oggi e per il futuro. Emozioni con le quali il confronto è sempre complesso.

Ed è così che nelle mie intime riflessioni ho pensato al “barattolo della calma”, ispirato alla pedagogia montessoriana a cui più volte ho fatto riferimento nella mia pratica educativa.

Un barattolo speciale che contiene al suo interno del liquido blu e dei brillantini. Il suo compito è quello di intervenire dopo un momento di forte stress, di rabbia o di frustrazione riportando il bambino/individuo ad una condizione di equilibrio e autocontrollo ed offrendogli  la possibilità di poterlo fare da sé.

Ho dunque immaginato il “barattolo della calma” come un dispositivo di protezione per la psiche che tutti, grandi e piccoli, possiamo utilizzare subito dopo una tempesta emotiva per poter  aprire uno spazio di riflessione e, finalmente, osservare il percorso e non soltanto il traguardo.

Essere educatore, oggi, in una comunità per minori è sentire il peso della responsabilità maggiore. Un peso con il quale ti misuri tutti i giorni, all’interno del turno di lavoro ma specialmente all’esterno, nella tua intimità e individualità. E così, in quello spazio di riflessione che ritrovi dopo aver agitato il famoso barattolo, ti soffermi a pensare se il tuo agire è sufficiente per poter accogliere, osservare, ascoltare i bisogni dell’altro in un momento dove si fa fatica ad ascoltare i propri.

Sono gli occhi che incontro nel mio lavoro che mi danno la forza di andar avanti. Gli occhi di quei bambini e di quegli adolescenti ai quali ancora una volta è cambiata la vita e nuovamente viene richiamata in campo la loro capacità di resistere e adattarsi alla sfida che ci si è presentata, perché loro più di tutti sanno cosa vuol dire ristrutturare la propria esistenza.

E se l’adattamento alla mancanza della scuola, delle attività sportive , delle passeggiate al mare  può essere molto complicato ma possibile, l’assenza e la distanza dai tanto attesi incontri coi familiari diventa estremamente difficile da tollerare e, al contempo, diventa ancora più difficile “credere che ci sei, comunque sei, sei qui per me”.

E allora quel metro di distanza pesa come un macigno, perché vedi quegli occhi, agiti il barattolo e trasgredisci nel tempo di un abbraccio dove il tempo si ferma e credi e vuoi far credere che  “TUTTO ANDRÀ BENE”.

Annalucia Olmeo

Educatrice de La Casa sull’Albero

Lettera di un’Educatrice: “Quando la pandemia chiuse le ali della libertà”

Sono ormai trascorsi venti giorni da quel pomeriggio durante il quale un cambio turno non fu poi così rapido, più di un’ora a confrontarci per capire al meglio cosa potesse capitare nei giorni a seguire e, infatti, la mattina seguente, era il 9/03/2020, seduti intorno al tavolo l’équipe trascorse il suo tempo a discutere cosa fosse meglio fare, vista ormai la situazione di emergenza. Ancor prima che il Governo annunciasse il primo Decreto, noi Educatrici/Educatori con la Responsabile della Struttura decidemmo di chiudere quella porta per tutelare al meglio i nostri bambini e ragazzi e di dedicare loro del tempo per spiegargli cosa stesse succedendo e perché avessimo preso tale decisione.

La vita in comunità ormai è cambiata, come d’altronde sono cambiate le nostre vite: non solo abbiamo dovuto modificare la routine dei turni ma anche l’intera organizzazione interna del nostro lavoro per poter trascorrere al meglio le giornate. La scuola chiusa, niente visite da parte di genitori, niente uscite, niente sport, la vita cambia radicalmente, come si fa a spiegare ad un bambino e ad un adolescente tutto questo? La paura nei loro occhi di poter rivivere l’ennesimo abbandono suscita in loro tristezza, rabbia e tutti quei sentimenti legati a un vissuto molto particolare che noi operatori conosciamo molto bene. I bambini che vivono in comunità sono bambini che soffrono tanto ma che spesso mostrano resilienza proprio perché noi ci dedichiamo molto a questo; molto spesso crollano perché, non avendo gli stessi strumenti di un adulto, non capiscono cosa realmente stia succedendo. In un momento così delicato le paure aumentano e noi dobbiamo essere pronti ad accoglierli sempre, oggi più che mai affinché possano sentirsi al sicuro e amati da chi oggi si prende cura di loro. Come si fa a spiegare ai bambini che la scuola è chiusa e non siamo in vacanza? Idem ai ragazzi con i quali si può parlare in altri termini, tenendo conto delle loro difficoltà e delle loro situazioni.

Nonostante il timore iniziale siamo riusciti ad organizzare il tutto nel miglior modo possibile e oggi, dopo tre settimane, la mattina svolgono compiti come se fossero a scuola e la sera fanno delle attività insieme per divertirsi, sempre dentro la comunità. Mi viene da sorridere mentre scrivo perché mai avremmo pensato di dover riorganizzare una giornata scolastica e non solo, attività, giochi, svago, mille cose affinché le giornate trascorrano il più serenamente possibile. Arrivare in turno e sentire urlare il tuo nome ti fa sentire viva, felice di aver scelto nella tua vita un lavoro così gratificante come forse pochi al mondo, come se veramente tu fossi una persona talmente speciale da non poter fare a meno di essa. Noi siamo persone speciali, svolgiamo un lavoro speciale e siamo circondati da bambini e ragazzi speciali e oggi viviamo quasi sicuramente un momento speciale che nessuno di noi potrà mai dimenticare. Noi non siamo solo un’équipe, siamo un gruppo di persone che la vita ha voluto far incontrare in quella casa, “La Casa sull’Albero”. Tra di noi già da tempo è nato qualcosa di importante che va al di là del nostro lavoro, qualcosa che ci unisce e ci fortifica ogni giorno di più. Oggi più che mai ci sentiamo forti e ci siamo l’uno per l’altro. Forse è grazie a tutto questo che il nostro lavoro è straordinario perché ci consente di incontrare colleghe e colleghi con i quali possiamo sentirci liberi di essere, soprattutto in momento in cui le ali della libertà ci sono state chiuse.

Sara Giordo
Educatrice de La Casa sull’Albero

Sua Maestà Ingenuità. Favola di un’educatrice per bimbi “ingenui”

Il coronavirus, si sa, porta con sé tante conseguenze. Una positiva è la capacità di ciascuno di noi di reagire e trovare per sé e per gli altri risorse che possono aiutare ad affrontare la paura ma anche l’ansia o semplicemente la noia dello stare a casa.

La favola che riportiamo è inedita, è stata scritta da Emanuela Michela Bussu, una delle nostre pedagogiste impegnate a Casa Aurora che è anche un’ottima osservatrice di ciò che sta accadendo ai più piccoli. Perché, si sa, i bambini si accorgono di tanto o di tutto, vedono i cambiamenti nella loro quotidianità e nelle espressioni dei genitori, nell’assenza degli amichetti e dei giochi all’aperto tutti insieme. Sono ingenui solo agli occhi di molto adulti, eppure hanno tante risorse da cui possiamo imparare 🙂

P.s. si ringrazia la Coordinatrice di Casa Aurora, Giovanna Piana, per aver dato lo spunto di partenza per questa favola.

Sua Maestà Ingenuità
C’era una volta Gaia, una terra felice, dove tutto girava tanto veloce,
così veloce che la felicità non era possibile vederla nella quotidianità.
I bambini, loro sì, sorridevano sempre e la felicità la trovavano in ogni dove.
I grandi la chiamavano ingenuità.
Quando un giorno accadde un fatto molto preoccupante, i grandi pensarono che bambini e
bambine non avrebbero capito. L’ingenuità, pensavano loro, li avrebbe protetti dalla paura
e dal sapere quanto fosse pericoloso un piccolo esserino, Corona Virus, Corona per gli amici
(anche se lui di amici ne aveva ben pochi). L’esserino era tanto colorato quanto forte e più
andava veloce più tanti abitanti della terra contagiava. Insieme a lui, andava veloce la paura
perché Corona Virus aveva il potere di fare ammalare le persone, ma non solo. I bambini,
che ingenui come pensavano i grandi non erano, avevano notato che cambiava la faccia
alle persone, perché tutti erano così preoccupati che anche mamma e babbo non riuscivano
per niente a fare finta di niente.
Le giornate erano cambiate: stare a casa, niente scuola, non baciarsi e abbracciarsi, pure il
parco era negato e lo svago con i nonni e le persone amate rimandato. Questo era stato
chiesto a tutta la cittadinanza: stare a casa. I grandi erano tristi e, se lavare le mani ben
bene non era faticoso, qualche altro comportamento era rischioso e trovare la soluzione alla
noia e al problema, dopo tanti giorni, diventava difficoltoso: ci fu chi propose soluzioni
diverse, chi nel divano si perse. Degli scienziati le energie furono ben spese, ma i bambini
usarono la fiducia nel futuro e vollero regalare a ciascuno un po’ di colore: “Rosso per te,
arancione per tre, giallo per sé, verde, blu, indaco e viola per chi dell’arcobaleno si
innamora”. “Più ce n’è, meglio è!”, pensarono gli ingenui bambini mentre dipingevano e regalavano una nuova faccia a Gaia, la Terra, che, così colorata, era tanto cambiata e forse
così bella non lo era mai stata.
Fu così che Corona, che quella forza e tutti quei colori pensava di possederli solo lui, triste
s’arrese, tolse la sua corona e decise di partire per universi lontani. L’ingenuità fu incoronata
regina delle doti e tutti si inchinarono al cospetto di Sua Maestà Ingenuità. Ci fu una grande
festa, con baci, abbracci, giochi e risate, per la gioia e la vicinanza ritrovate.

C’era una volta e c’è ancora Gaia che, si dice, oggi sia ancora più felice.

Autrice: Emanuela Michela Bussu.

#andràtuttobene

#storiedimela

Sorridere con gli occhi: la relazione educativa oggi nella Casa rifugio per donne e bambini vittime di violenza

In questo periodo di pandemia mondiale causata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2, noi Operatrici della Casa-rifugio del Progetto Aurora ci siamo profondamente messe in discussione, come individui e come professioniste, come probabilmente è accaduto a tante persone. È evidente che quanto sta accadendo non possa che scuotere e destabilizzare, poiché mette in contatto con l’ignoto, genera paura e ansie, toglie riferimenti. La stessa limitazione della libertà, conseguenza dalla regolamentazione resasi necessaria per limitare i contagi, ha mutato profondamente la nostra vita che è oggi scandita da ritmi dettati esclusivamente dai bisogni primari e dallo svolgimento del nostro lavoro. Certamente potremmo fare un lungo elenco di quanto è cambiato il nostro quotidiano, ma vogliamo qui raccontare come è mutato il nostro operare all’interno del nostro servizio, un servizio essenziale, che la Cooperativa Porta Aperta gestisce per conto del Comune di Sassari.

Quello che svolgiamo è un servizio essenziale perché consente di mettere in protezione donne e i loro figli/e che, fino a quel momento, hanno vissuto in una casa (la loro casa) nella quale tale senso di protezione non è stato possibile sentirlo, perché la violenza intra-familiare era parte della loro quotidianità. Mai come in questo momento appare quindi chiaro il senso e l’importanza di un servizio come questo che permette quotidianamente a donne e minori di trovare uno spazio di accoglienza e ascolto per ricostruire il proprio ben-essere, procedendo in un percorso di consapevolezza e di cura del Sé.

Le nostre ospiti si trovano in una condizione di incertezza e fragilità generata dalla scelta di lasciare la propria casa e la vivono in un oggi che è reso ancora più incerto a causa di un virus imprevedibile. Per questo continuiamo a operare quotidianamente, per cercare di garantire un riferimento chiaro e saldo, con una professionalità che è arricchita dalla consapevolezza di avere delle responsabilità verso le ospiti: fare il possibile per proteggerle dal contagio e minimizzare il rischio di essere noi educatrici il veicolo per lo stesso, supportarle emotivamente e logisticamente nella strettissima quarantena che stanno osservando e sostenerle nella relazione con i propri figli, anche loro profondamente colpiti da quanto sta accadendo ed è accaduto nella loro vita. Ci sentiamo in dovere di massimizzare le misure preventive per tutelare le donne e tutte noi operatrici, riducendo al minimo i nostri contatti con l’esterno e prestando estrema attenzione in quelli necessari. Abbiamo imparato ad operare utilizzando i DPI (mascherine e guanti), certamente inusuali nella quotidianità di una casa e nelle relazioni d’aiuto, spiegando la necessità di farlo anche ai minori, affinché non fossero turbati dalla cosa. Proteggiamo le ospiti e i loro figli e figlie, rispettiamo le distanze di sicurezza, ma non abbiamo aumentato le distanze relazionali che restano quelle funzionali alla relazione educativa. Per il bene comune, abbiamo preso decisioni che mettessero insieme cuore e mente per un agire pedagogico equanime. Abbiamo continuato a sorridere e, fortunatamente, possiamo ancora mostrarlo, nonostante parte del viso sia coperta, perché anche gli occhi sorridono e i nostri possono ancora comunicare presenza e consapevolezza, portare uno sguardo sereno e, ce lo auguriamo, rasserenante per accompagnare verso gli obiettivi definiti. Ciò è frutto di un lavoro individuale e di équipe che ci ha permesso di ascoltare la paura (anche noi l’abbiamo avuta e l’abbiamo ancora), di attraversarla, di confrontarci e comprendere quali fossero le risorse da utilizzare, di quali disponessimo e quali fosse necessario potenziare per lavorare in questo momento di pandemia.

Sinterno della relazione. La relazione educativa è sempre mediata dal contesto nel quale il processo relazionale si compie. Il contesto odierno ci chiede di rallentare, far sedimentare le emozioni che stanno circolando (paura, preoccupazione, noia, rabbia) e comprendere come spazi e tempi – individuali, collettivi, educativi – possono essere ripensati alla luce di quanto sta accadendo.

Emanuela Bussu

Pedagogista

Educazione e speranza: la voce di un’operatrice de La Casa sull’Albero

Ogni giorno, in questo momento di grande difficoltà, sentiamo parlare di tutte quelle categorie di lavoratori che continuano a svolgere il proprio lavoro, con impegno, professionalità e responsabilità.
Un pensiero in particolare va dedicato ai medici, agli infermieri e a tutto il personale che opera presso gli ospedali in quanto, oltre a continuare il proprio servizio in modo professionale e responsabile, lo fanno rischiando ogni giorno di contrarre il coronavirus più di ogni altra categoria di lavoratori.
Anche gli educatori che operano nelle strutture residenziali appartengono alla categoria di chi non può fermarsi.
Io stessa da diversi anni opero in una Comunità educativa per minori presente sul nostro territorio – La Casa sull’Albero (Sorso)- e, insieme a me, altri colleghi dedicano il proprio impegno ai minori accolti.
Ancora oggi il nostro lavoro non è ben compreso dalla popolazione, tanto da sentirsi chiedere, in tempi di coronavirus, “Ma tu, perché stai lavorando?” “Non avete chiuso?”.
Le Comunità educative per minori non possono chiudere!
Sono vere e proprie case in cui vengono accolti i minori inviati dai Servizi Sociali del territorio e affidati dal Tribunale per i minorenni. Gli ospiti delle Comunità sono bambini e ragazzi che hanno un’età compresa tra i 0 e 18 anni, fino ad un massimo, in casi particolari, di 21 anni.

All’interno delle strutture si svolge la quotidianità che la maggior parte di noi conosce. In tempi “normali” si frequenta la scuola, si pranza tutti insieme, si svolgono i compiti pomeridiani, si pratica sport, si esce con i propri amici, insomma si conduce una vita abbastanza comune per quanto riguarda le routine quotidiane.
A seconda dei casi e su indicazione del Tribunale, i ragazzi incontrano e frequentano anche i loro familiari, genitori, parenti ma trascorrono la maggior parte del loro tempo con noi educatori che diveniamo o almeno proviamo a diventare le loro figure di riferimento.
Cosa significa essere educatore?
Se partiamo dall’etimologia del termine, Educare deriva dal latino educere = “condurre fuori”, “liberare”, “far venire alla luce qualcosa che è nascosto”.
Educare significa quindi permettere la realizzazione piena del potenziale e delle vocazioni presenti nei bambini e nei ragazzi, ma anche realizzare se stessi realizzando gli altri, l’educatore deve infatti, prima di tutto, attraversare un processo di auto- educazione e costantemente curare la propria crescita personale per essere efficace nella relazione educativa.
Instaurare una relazione educativa all’interno della Comunità è un processo lungo e difficile, ci troviamo dinanzi a ragazzi che provengono da contesti problematici e che spesso hanno perso la fiducia negli adulti, ragazzi che si trovano davanti degli sconosciuti da ascoltare, ai quali affidarsi, confidarsi, appoggiarsi.
Affinché la relazione educativa possa instaurarsi, diviene importante che vi sia da parte di entrambi un riconoscimento reciproco, solo allora si afferma il valore e la dignità e i ragazzi possono credere nuovamente nelle relazioni. L’educatore infatti, se vuole insegnare qualcosa deve mettersi nella condizione di imparare. I grandi autori pedagogisti come Maria Montessori hanno imparato dai loro stessi allievi come fosse possibile aiutarli a crescere.
Questo significa che il dialogo educativo non può essere un monologo, l’educatore deve porsi in ascolto e predisporsi ad apprendere dai ragazzi.
Oggi più che mai, in questo difficile momento storico, noi educatori abbiamo il compito di trasmettere la speranza nel futuro e possiamo farlo prima di tutto apprendendo dai ragazzi, imparando dalla loro resilienza e adattabilità ad andare avanti e a trovare, attraverso un adattamento creativo, la via per proseguire il nostro cammino.
E dopo aver appreso possiamo far desiderare loro il mondo, quel mondo che noi conosciamo meglio e più di loro, quel mondo tangibile fatto di luoghi, viaggi, relazioni positive, soddisfazioni, gratificazioni e successi piccoli e grandi, tutte cose che loro ancora non conoscono o che si accingono a sperimentare e che noi, ora più che mai, desideriamo nuovamente risperimentare dopo questo periodo di forzato isolamento.
Dobbiamo trasmettere loro la motivazione, la curiosità, il desiderio di scoprire e sperimentare.
E allora, ancora, l’adattamento creativo diviene reciproco, diviene un rapporto bidirezionale e quindi vivo, la possibilità di imparare da tutti, di farsi colpire e stupire dall’altro, come sostenuto da Danilo Dolci … e chissà se quella dell’adattamento reciproco non possa essere una lezione che tutti impareremo e terremo a mente dopo che questo virus che colpisce tutti senza distinzioni sarà stato debellato.

Silvia Piredda
Educatrice, Psicologa

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